Nelle città greche di Sicilia si mangiava anche per strada, nel “thermopolion” (una sorta di friggitoria all’aperto). Passeggiando per i banchi, tutti i sensi del viandante erano sedotti dai profumi penetranti del cibo cotto, da piluccare sul posto o da portare a casa, erano verdure bollite, interiora bollite o arrostite sulla brace, pesci fritti…
Un antichissimo “fast food” e “take away” di oltre duemila anni fa, esattamente come accade ancora fra i vicoli o gli animati mercati di Palermo.
Con i piaceri della tavola e la gioia di un bicchiere di vino vedono la luce i primi “esperti di gastronomia” della Storia, e se i critici gastronomici sono una piaga, la piaga è antica e doleva già allora.
Accanto al trattato “Alimentazione della gente sana” del medico agrigentino Acrone (di cui restano dei frammenti, citati da altri autori), ecco l’imperversare di famosi cuochi del tempo, il filosofo Platone, nel suo “Gorgia”, cita il pasticciere Thearion ed un certo Mithecos, autore del primo manuale di cucina siciliana, ma non dimentichiamo il vero esperto nell’arte del buon bere: Sarambos uno dei primi enologi di cui abbiamo traccia nella storia.
La letteratura gastronomica di quei tempi così lontani compie, però, un vero balzo in avanti con Archestrato di Gela, vissuto intorno alla metà del terzo secolo avanti Cristo, un vero intenditore, sedotto dai mitili di Messina, appassionato estimatore del branzino di Mileto e del tonno che si pescava a Solunto. Addirittura del tonno consigliava la carne delle femmine, più tenera e saporita.
Sarà per questo motivo che i siciliani, ancora oggi, mangiano “tunnina”?
La cucina che propone Archestrato è semplice e genuina, assolutamente priva di sofisticherie. Ama i sapori naturali dei cibi, gustati nella loro arcana e insostituibile bontà, le sue pietanze non richiedono preparazioni laboriose né intrugli untuosi. Il suo pesce, arrostito o bollito, vuole solo un contorno di erbe aromatiche che ne esaltino il sapore. Archestrato lamenta la cattiva abitudine, tutta siciliana, di mettere cacio in tutti i piatti, offuscandone i sapori, “come se a mangiare fossero gatti e non uomini”, come succede ancora oggi nella cucina isolana.
Per la prima volta il cibo, dalla funzione alimentare, passa a corredo di attributi importanti quali il buon gusto, la classe e un certo modo di vivere. La tavola siciliana diventa un luogo sacro, i commensali devoti fedeli ed il mangiare un rito. I siciliani non lo dimenticheranno mai.
E se in Sicilia l’enogastronomia raggiungeva vette elevatissime, Platone non si lasciava corrompere da simili mollezze.
Nella sua “polis” ideale aveva stabilito criteri alimentari assai severi per quegli abitanti-cittadini ideali: “E’ evidente che essi avranno sale, olive, formaggio, cipolle e verdure che sono cibo dei contadini. Per concludere il pranzo gli serviremo fichi, ceci e fave, arrostiremo sulla brace bacche di mirto e castagne che essi sgranocchieranno bevendo vino con moderazione.” Provate, con questo, a leccarvi i baffi!
Ai suoi occhi severi, i Siracusani, furono rei di “mettersi a tavola tre volte al giorno”!
Fonte: la cucina siciliana dai Sicani agli Arabi: 10.000 anni a tavola fra mito e storia