Furono le guerre puniche a portare i Romani in Sicilia dove rimasero dall’inizio della prima guerra punica, nel 264 a.C. fino all’arrivo dei Bizantini, nel 535 d.C.
Per gli eserciti continuamente in guerra e per la popolazione in fase di grande espansione, Roma aveva la necessità di vettovagliamento. Ecco perché la Sicilia diventò il “granaio di Roma”. Si distrussero, allora, le grandi foreste che la ricoprivano per buona parte e che rendevano navigabili i suoi fiumi più importanti.
Fu così che i Romani, gente piuttosto rozza, scoprirono raffinatezze mai supposte: i bagni pubblici, la bottega del barbiere e la meridiana con cui indicavano il trascorrere delle ore.
E, naturalmente, si lasciarono sedurre dagli incanti della cultura del ben mangiare e del buon bere, fino a quel momento a loro ignota. Ad attirare la loro attenzione fu, tra l’altro, il “garon”, una salsa ottenuta dalla salamoia di pesci ed erbe aromatiche, il nome pare che i Greci l’avessero preso da un misterioso pesce “garos” messo in salamoia in apposite vasche, non fu pesce putrefatto, come scrisse qualcuno, ma più tecnicamente un “autolisato spontaneo”, cioè una disintegrazione spontanea dei tessuti dei pesci per azione di alcune sostanze da essi stessi prodotte. Fu di grande valore nutritivo in quanto composto di aminoacidi liberi, assimilabili molto facilmente dall’organismo umano.
Lo chiamarono alla latina “garum” ed allestirono enormi vasche in cui i pesci potessero macerare al sole, in Spagna, sulle coste nordafricane ed anche in Sicilia. Ce n’erano pure sull’isolotto di Isola delle Femmine, nei pressi di Palermo.
Spremuta la poltiglia, si otteneva una crema morbida che potrebbe ricordare la nostra pasta d’acciughe. La chiamarono “allec” o anche “allex” dal verbo “allectare”, cioè allettare, al bere, naturalmente, per la gran sete che provocava. Servì a nutrire schiavi e poveracci.
All’interno delle case si preferiva cucinare il pesce arrostendolo sulla brace o lessandolo in acqua,era nelle “cauponae”, le taverne d’allora, e nelle botteghe che, invece si serviva fritto e, come nel “thermopolion” greco, anche i Romani impararono a consumare il cibo per strada. Divenne facile acquistare fuori le carni arrostite e le verdure già cotte, ma fu soltanto in epoca imperiale che i Romani portarono il lusso in tavola: polpette di pesci rari, profumate di menta e cumino, ostriche cotte o crude, servite su un letto di carissima neve. Dal lusso al misfatto, in cucina il passo è breve, anche oggi.
Un promulgatore di questa “nouvelle cuisine” ante litteram può essere considerato Apicio che non si negò mai alcuna stravaganza. I Romani impararono presto che il cibo poteva diventare un assai interessante “business”, come diremmo oggi. Alimenti conservati furono spediti in ogni luogo di quell’immenso impero. Ecco perché, tra le tecniche di conservazione, si preferirono il sale e la salamoia. Sotto sale ci finirono soprattutto i pesci che si trasportavano in speciali giare di coccio, indicate come “vasa salsamentaria” e “salsa” si chiamò il pesce conservato. E “salsamentari”, fino a pochi anni fa, furono chiamati in Sicilia coloro che lo vendevano, ben allineato negli scaffali accanto a scatole di pelati, pacchi di sale e generi alimentari.
Fu grazie ai Romani che i siciliani diventarono “cives”. E, stando alle note di Marco Terenzio Varrone, ogni loro parola era avvolta dall’odore penetrante quanto persistente, dell’aglio e della cipolla. A consolazione aggiunse che era l’odore della virtù e del coraggio.
Si scoprirono pure le virtù del porro: diuretiche per Dioscoride, espettoranti secondo Plinio. L’incontinente Nerone ne faceva scorpacciate, ma solo per schiarirsi la voce, prima di declamare i suoi versi.
Se la carne bovina fu immangiabile, dato che si abbattevano soltanto capi vecchi o malati, furono le greggi a fornire la carne nell’alimentazione del tempo, e così sarà in Sicilia per molti secoli a venire.
La parola “peculium” cioè ricchezza, deriva proprio da “pecus”, armento o gregge, e “peculatum” fu il furto, la sottrazione di un bene pubblico.
Del maiale i buongustai preferirono i genitali, maschili e femminili, altre alle poppe della scrofa, specialmente se questa era stata macellata subito dopo il parto, con le mammelle ancora piene di latte.
Le stravaganze della cucina romana non ebbero grande successo sulle tavole dei siciliani, che invece apprezzarono e impararono dai Romani le tecniche per l’allevamento dei pesci e delle lumache.
In Sicilia si mangiavano già le lumache cheerano un passatempo e che i greci chiamavano “Babalukion”, piccolo bisonte. Forse per via delle corna.
Anche i panettieri si diedero da fare per apportare qualche novità nelle forme dei pani ed i più ricercati furono preparati con farina di frumento e, poi, cosparsi di semi di papavero, di cumino o di sesamo. Una vera leccornia fu il pane cotto sul braciere e poi inzuppato nel vino mielato. Fu lui il nonno del babà?
Si vedono vigneti nei mosaici della “villa romana del Casale” a Piazza Armerina, in provincia di Enna. Appartenne ad un ricco romano quella villa e proprio in epoca romana furono celebri i vini siciliani come il Potulanum, il Mamertinum e il Tauromenitanum, tanto apprezzati da essere esportati in ogni angolo dell’impero.
Varrone annovera oltre una cinquantina di varietà di uve da tavola e centottantacinque vitigni da vino!
Ma bevevano davvero male i Romani, annacquando con acqua fredda o calda a seconda delle stagioni. E poi avevano lo stesso problema dei Greci: quei vini inacidivano presto e non avevano tenuta. Diciamo che furono grandi produttori di aceto.
Proprio con l’aceto si preparava la “posca”, una bevanda dissetante fatta di acqua e una spruzzata d’aceto che la rendeva acidula, esattamente come facciamo oggi con il succo del limone. Date le virtù antisettiche, l’aceto, era dato in dotazione ai soldati che, durante le lunghe estenuanti marce, potevano rendere potabile qualsiasi acqua incontrata lungo il cammino. E quando Cristo, agonizzante sulla croce chiese da bere, un legionario gli porse una spugna infilzata su una lancia e gliela appoggiò alle labbra. Era intrisa di “posca” e quel soldato intendeva, davvero, lenirgli le sofferenze. Purtroppo quel gesto compassionevole fu tramandato, invece, come estremo segno di scherno. Eppure, in Sicilia, quando si vuole intendere un nobile gesto si dice proprio “rumanu”.